Il gioco
Quell’inverno venne a trovarci anche mio cugino Pietro. Bello e pieno di vigore, portava i capelli neri e spettinati, al contrario dei miei, che, lisci e discriminati tristemente da un lato, mi facevano assomigliare a una femminuccia. A quattordici anni, due più di quelli che avevo io, Pietro sembrava già un uomo, una evidente peluria scura gli era cresciuta al di sopra del labbro superiore e si notava in lui qualcosa di mutato e fiero. Anche l’abbraccio che mi riservò fu diverso e distaccato, negli occhi un luccichio commosso. La morte del nonno mi aveva sconvolto e sarei scoppiato volentieri in lacrime contro il suo petto, ma mi trattenni per non fare la figura del bamboccio.
Pietro mi coinvolse subito in un nuovo fantastico gioco.
“Vieni, dai, che ci sono novità!” disse, mostrandomi una pagina di giornale.
“E cioè?” allungai il collo, ma riuscii a leggere solo la parola Serajevo, prima che lui ripiegasse il foglio con sufficienza e se lo rimettesse in tasca.
“Ma come, non sai che hanno assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando?”
“Assassinato? E perché?”
“Ecco, per papà si tratta di terroristi anarchici, gente pericolosa. Dice che presto entreremo in guerra pure noi!”
La parola guerra da un lato mi turbò, ma dall’altro mi riempì il cuore di entusiasmo, al pensiero del tricolore e della fanfara dei bersaglieri, mi richiamò alla mente termini come eroe, sacrificio, patria. Per il gioco montammo una specie di tenda in giardino, fui nominato attendente dello Stato Maggiore del nostro esercito, dopodiché ci sistemammo seduti a gambe incrociate a organizzare piani di battaglia e mappe dettagliate.
“Ora non ci resta che firmare i documenti per le reclute, io detto e tu scrivi!” mi intimò Pietro e lo ammirai ancora una volta per la bellezza e la sicurezza che mostrava, affatto preoccupato per lo scenario tragico che si stava preparando nelle nostre vite. Passammo così l’intero pomeriggio o, almeno, fino a quando non si udì un urlo terrificante dalla cucina. I miei genitori e tutti accorsero, temendo che Rosa, la cuoca, potesse essersi ferita con qualche coltellaccio. La trovammo che piangeva disperata, le lacrime che dalle guance colavano sopra la pasta frolla già ben stesa sulla spianatoia di legno, incapace di spiegarsi che fine avesse fatto lo stampo per i biscotti. Di certo nessuno poteva immaginare che lo avevamo usato, Pietro e io, intinto nell’inchiostro, come il timbro perfetto della nostra personale dichiarazione di guerra.
Quello fu l’ultimo gioco davvero spensierato, dopo qualche mese mio padre partì per il fronte.